Il lemma “nichilismo” ebbe la sua prima applicazione non già con Friedrich Nietzsche, bensì in epoche precedenti (come quella della Rivoluzione francese per esempio), pur mantenendo nella continuità storica dell’uomo, per dirla con termini heideggeriani, lo stesso significato. In generale il termine designa una realtà in cui valori (quali libertà, giustizia, uguaglianza, etc…) e cose sono “liberati”, secondo un’accezione negativa, da un’attribuzione di senso, o più semplicemente, si è in presenza di una riduzione a nulla di tutti questi elementi, seguita da una logica e fredda perdita totale di certezze.
Il male del nichilismo è radicato sin dalle filosofie antiche appartenenti a pensatori come Socrate e Platone, i quali crearono una visione “duplice” dell’essere: da una parte una idealità, un’eternità e una trascendentalità, dall’altra una sensibilità transitoria e caotica; in termini brevi una divisione del mondo in ultraterreno (a cui guarda anche la religione cristiana, colpevole anch’essa), e terreno, sensibile. Il merito del filosofo tedesco si deve inquadrare nello sviluppo delle conseguenze di una siffatta concezione, che prendono le mosse dalla celeberrima asserzione “Dio è morto”, e che ha il suo manifestarsi nell’opera intitolata “Gaia scienza” (del 1882).
Ebbene la rassegnazione derivante da un nichilismo siffatto trova sfogo ancora oggi all’interno della nostra società ed infatti, secondo il filosofo e professore Umberto Galimberti, i giovani odierni sono perennemente immersi in una condizione nichilistica che egli definisce “passiva” (riprendendo la distinzione nietzschiana), probabilmente rifacendosi anche al filosofo Gianni Vattimo, il quale definisce il concetto del nichilismo come la condizione del mondo postmoderno (un mondo dunque privo di certezze e valori). Tant’è che la situazione giovanile oggi risulta essere proprio questa: mancanza di orizzonti sicuri, una “nuova” forma di depressione che si innerva nella consapevolezza di non essere adeguati a…, una realtà disgregata senza l’offerta di alcuna via d’uscita. Eppure in una tal condizione di vita vi sono alcuni giovani (la minoranza purtroppo), che hanno coscienza di trovarsi in una cornice storica prettamente sfavorevole e ciò che rimane loro è un unico e possibile appiglio rappresentato dalla sponda “positiva” del concetto nichilistico: stiamo parlando di quella parte che cade sotto il nome di nichilismo attivo.
Chi decide di adottarlo è sì segnato dalla consapevolezza di un futuro instabile, di un “perché” assente e che invece dovrebbe spingere verso un’autorealizzazione, ma nonostante simili premesse reagisce. Nel caso di quelli che possono essere chiamati come “giovani dell’Appennino”, i modi con i quali questo atteggiamento si manifesta ha sfaccettature diverse, ma sempre con l’ugual scopo di non volersi arrendere ad una realtà già contaminata: aprire un’attività in un paese semiabbandonato, tornare periodicamente alle proprie radici, dare vita ad iniziative culturali che coinvolgano i territori confinanti, sono tutte manifestazioni di una volontà che, sì è costretta a fare i conti con un contorno negativo, ma che non contempla la rassegnazione quale soluzione da adottare.