Il (falso) mito della resilienza

Immagine dell'autore Davide Moscatelli, Jun 9, 2023

Vi è al giorno d’oggi un invito reiterato, che diventa quasi assillante, all’essere “resilienti”, termine (ri)scoperto in epoca contemporanea e che sembrerebbe avere un’applicazione pressoché universale, giacché colui il quale manifesta tale atteggiamento si rivela in grado di superare qualsivoglia condizione nefasta gli si presenti, cosicché da non risultare mai “vinto”, bensì sempre vincitore. L’esaltazione delle individualità resilienti è sotto gli occhi e sulla bocca di tutti: persino nell’acronimo del Piano Nazione di Ripresa e Resilienza (Pnrr), troviamo un indirizzo che ci instrada in una condizione (quella resiliente per l’appunto), ben precisa. Ma cos’è la resilienza?

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Ne possiamo cogliere l’essenza grazie ad un primo sguardo volto verso la definizione rintracciabile nel sito della Treccani, che cito testualmente: “Nella tecnologia dei materiali, la resistenza a rottura per sollecitazione dinamica, determinata con apposita prova d’urto: prova di r.; valore di r., il cui inverso è l’indice di fragilità”. A catturare l’attenzione dunque è la conclamata abilità nel non farsi spezzare di fronte ad una forza avversa, atteggiamento rinvenuto ed esaltato anche nella sua recente applicazione psicologica e che, conseguentemente, è riservato ora non più agli oggetti, bensì alle individualità, le quali potremmo definirle, attraverso un poco ironico gioco di parole, “(s)oggetti”.

Si riesce ora a capire perché sia lecito parlare di (ri)scoperta del lemma: attraverso una sorta di traslazione semantica si è assistito ad un utilizzo nel campo delle scienze fisico-matematiche a quello psicologico, mantenendo tuttavia il significato originale. La nuova utilizzabilità è attestata ancora una volta dalla Treccani, la quale recita altresì: “Il significato originale della parola inglese resilience si è sviluppato nel campo dell’ingegneria dei materiali e rappresenta la capacità di un metallo di riacquistare la propria struttura o forma originaria dopo essere stato sottoposto a schiacciamento o deformazione’. Poi è passato alla psicologia, a significare ‘la capacità di riprendersi da eventi difficili della vita’”. Ebbene, sembrerebbe utile un tale atteggiamento, per esempio in presenza di quelle circostanze da noi incontrollabili e immodificabili, quali per esempio un caso di lutto; ecco allora che la proposta di farsi resiliente mostra il suo lato migliore ed auspicabile. E allora quand’è che vi è la “messa tra parentesi” del soggetto come poco prima mostrato?

Riflettendo più a fondo sulla significazione che ho riportato non si può non notare la presenza di un indice di passività poiché, ciò che fa di un soggetto resiliente quel che è, lo si deve alla sua peculiarità di sapersi riprendere da situazioni svantaggiose, ma nulla lascia spazio ad una possibilità di agire o di ribaltamento nei riguardi di quella stessa realtà che si presenta ora come avversa. Se fosse possibile modificare il mondo dei fatti, in modo tale da ottenere una condizione di vita migliore, sarebbe ancora auspicabile essere resiliente? Se, con un esempio molto semplice, avessimo un foro nella nostra casa dal quale entra aria fredda, decideremmo di coprirci maggiormente cercando di scampare al gelo, oppure ci adopereremmo affinché torni la situazione a noi più idonea? A mio parere chiunque avrebbe un atteggiamento attivo, posto in essere per modificare la propria realtà e non un mero atteggiamento accomodante nei riguardi di una circostanza precaria. Situazioni ineluttabili, come quella di una perdita o di una malattia, non possono essere logicamente oggetto di reazione attivamente intesa, ma lo stesso può dirsi in caso di politiche economiche e soprattutto sociali poco confortevoli che si possono ravvisare, giusto per fare un esempio, quando nel proprio paese vi è carenza di servizi essenziali (scuole, ospedali, supermercati…)?

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A ben vedere i militanti del nichilismo attivo, o i cosiddetti “restanti”, poco hanno a che fare con un atteggiamento che rasenta la non-azione e che, conseguentemente, non prevede alcun tipo di “lavoro” (pensabile in senso hegheliano, vale a dire uno strumento che nel caso del pensatore tedesco trova ragion d’essere nella dialettica Servo-Padrone, grazie al quale è possibile modificare la condizione in cui ci si trova), poiché questi, in base alla definizione di cui sopra, dovrebbero solamente assorbire le inadeguatezze oggettive della realtà in cui sono immersi, non provando a colmare quello scarto tra idealità e realtà appunto. È qui, a mio avviso, che si assume la peculiarità insita negli oggetti, dell’”inanimato” da parte dei (s)oggetti, ossia quando si rinunzia a quell’attività esclusivamente umana, che da sempre caratterizza il divenire storico degli individui: l’adeguare il mondo delle cose mediante la prassi. Ecco allora che risulta trasparente la distanza tra nichilismo attivo, il quale all’interno del proprio nome già contiene una predisposizione al “fare”, all’attività, e la restanza auspicata da Vito Teti (ossia un atteggiamento non accomodante, “bensì contrapposizione allo svuotamento delle aree interne, grazie ad una visione in grado di ripensare al passato come punto di partenza per una riabilitazione del presente”), nei riguardi dell’atteggiamento passivo delle individualità resilienti.