Dove stiamo dunque andando? Sempre verso casa.
Enrico di Ofterdingen, Novalis
Ripetevo quelle parole come fossero pezzi di una preghiera, le sillabe scandivano l’andamento dei miei passi sulla neve fresca. Destinavo ogni lettera di quella citazione alle suole dei miei anfibi che puntavano rivoltosamente a Sud. Ero felice di partire, serena all’idea di dover salutare il mio paese e tutto l’ecosistema allegato, come sempre. Il paesaggio di una vita mi scorreva davanti, osservavo la torre cuspidata di Sant’Agostino svettare sui tetti biancheggianti del centro storico, le ceramiche policrome del campanile riuscivano a catalizzare tutta l’attenzione sui loro toni accesi, la città di Penne spariva tutta al cospetto dei rivestimenti maiolicati che fregiavano le campane della chiesa. Malgrado la mia partenza solitaria, non accusavo questa condizione, gli eventi mi stavano regalando diverse opportunità. Per una strana legge della corrispondenza, stavo seguendo la traiettoria di alcuni corregionali illustri ai quali ero molto devota.
Ma quella terra non l’avevo mai vissuta, non la conoscevo: sarei stata una straniera e sentivo disperatamente il bisogno di esserlo. Il rebus di Novalis fece un gran brusio durante tutto il tragitto, perse la voce di colpo, non appena realizzai di aver identificato il profilo del Vesuvio. Ero arrivata a destinazione.
Quando cominciavo il mio stage come restauratrice al Parco Archeologico di Ercolano, il progetto di Culinarie Confidenze era già nato su un periodico cartaceo, dava il nome ad una rubrica nella quale la condivisione di piatti e ricette diveniva un pretesto per poter parlare di tutto ciò che mi stava a cuore, senza precisi limiti contenutistici. In quello spazio divulgativo avevo cominciato a riproporre, fedelmente, il ruolo che per me avevano assunto gli ingredienti nel corso del tempo, ai miei occhi erano dei veri e propri mezzi comunicativi, apparentemente silenti, capaci al contrario di sprigionare un ancestrale potere aedico. Pesco un ricordo dalla piazza della memoria e vedo le mani nodose di mia nonna impegnarsi nel tentativo, più che riuscito, di salvare il pane dalla secchezza dei giorni: lo idratava con acqua e aceto, lo rigenerava al taglio grossolano della cipolla, gli concedeva una risurrezione inaspettata abbandonandolo alla dolcezza del pomodoro a pera. Le sue dita prendevano a muoversi da sole, viaggiavano in automatico, quante volte lo aveva fatto? Da chi aveva ereditato questi stratagemmi? Soprattutto, quante prima di lei avevano perpetuato nel tempo questi procedimenti al punto da trasformali in tradizione? Non assistevo alla preparazione di una banale ciaudella ma alla restituzione di un prodotto collettivo, figlio di un lungo e lontano passa parola di consigli, consuetudini, variazioni gustative. Alla stregua dei poemi mitologici, la nascita dell’eredità gastronomica è dipesa in gran parte da una trasmissione orale operata da chi ci ha preceduto e la similitudine mi sembra decisamente calzante: nelle colline dalle quali provengo sopravvive ancora la valenza identificativa del patronimico, la stessa che era cara a Omero. Predisporsi all’ascolto, aprirsi ad una dimensione confidenziale per poter costruire dei piatti che lasciassero trasparire tutta la dimensione narrativa del cibo mi sembrava l’unico strumento che avevo per tentare di accedere alla mia storia personale, che è parte integrante di una memoria plurale, tanto preziosa quanto effimera, labile. Era un pensiero che mi affascinava, non so dire quale parte di me fosse più ossessionata, se quella afflitta da una fame atavica o quella della restauratrice dedita alla conservazione. Ne traeva sicuro conforto la mia sete nostalgica, da sempre alla ricerca di un senso di appartenenza. Eppure, solamente vivere una dimensione paesaggistica a me ignota, come quella campana, ha potuto placare quella brama, come se vivere la condizione di straniera potesse rivelarmi quale fosse la chiave d’accesso per aprire la porta della mia casa natale. Ho visto davvero la mia terra quando ho realizzato di non conoscerla, quando l’ho riconosciuta nella sua fluidità.
Parlo di una dimensione liquida che è la cifra della nostra identità, racchiusa nelle dispense di tutte le cucine, nei mattoni di tutti i borghi, in ogni racconto che si avvale del potere eziologico dei dialetti. Osservo una vecchia cartolina, confronto la stessa Torre che salutavo anni fa, mentre mi dirigevo in terra borbonica: individuo la sagoma di una bambina, appartenente ad un altro tempo, osservare il paesaggio vestino fondersi nel suo orizzonte, come nel più potente dei dipinti romantici. Non rimane che concedersi la possibilità di essere viandanti nel proprio territorio, di cercare le risposte nelle lacune di un rudere.