L’ultima fatica del professore ed antropologo Vito Teti deve il suo titolo a quel fenomeno, quell’atteggiamento, messo in atto da chi decide, con un “fare” al contempo doloroso e coraggioso, di spendersi per un territorio che egli ama: la restanza. Lo scopo dello scritto, per ammissione dello stesso autore, è quello di “plasmare un’immagine interiore del processo mentale di chi, per scelta o per forza, prende la sua strada e parte; ma la restanza al contempo, è il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente”. Ciò che non deve trarre in inganno è l’infelice intuizione che porterebbe ad inquadrare la prima (vale a dire il partire) come un’attività dinamica e la seconda (ossia il rimanere) come statica; la realtà è infatti diversa, poiché appoggiandoci alla visione tetiana siamo in grado di pensare alla restanza come “il viaggio da fermo di chi resta”. Vi è dunque una concezione dello spostamento bidimensionale: non soltanto il mero cambiamento geografico, ma anche il movimento, inteso in senso antropologico, di chi rimane nei paesi interni.
Non voglio qui soffermarmi sull’excursus storico, brillantemente analizzato dal professore, che spinse la maggior parte dei nostri avi a partire in direzione oltreoceano già nel tardo Ottocento, ma porre l’accento sugli aspetti umanistici che intervengono nel caso di quei militanti che Teti chiama “restanti”: il restare non è e non dovrà essere mai immobilismo, bensì contrapposizione allo svuotamento delle aree interne, grazie ad una visione in grado di ripensare al passato come punto di partenza per una riabilitazione del presente. Gli attivisti della restanza, oltre ad essere una risorsa per il futuro del proprio paese di appartenenza, sono altresì piccoli custodi di tradizioni e memorie che altrimenti diverrebbero “storia” da riesumare occasionalmente, con un fare retorico fine a se stesso. Le loro azioni seppur piccole, e quasi utopiche, portano con sé il germe del cambiamento e del ripensamento dei luoghi. Ecco allora che diviene possibile immaginare un futuro diverso per il proprio paese, in cui questi “ultimi abitanti” possono diventare i “nuovi” (abitanti), di località rinnovate e risorte grazie anche ad una ricostruzione forte della lezione appresa in virtù degli errori del passato. Accanto a questo atto di restanza nei riguardi dei piccoli tesori custoditi dalla storia di ogni paese, non vi è una mera scelta di comodo, bensì una presenza attiva, tramite la quale la contemplazione dei territori precede la rigenerazione degli stessi, onde evitare, anche qui, una perdita di memoria che rappresenterebbe una doppia ferita: dopo l’abbandono, anche la dimenticanza.
Restare quindi si configura come un ripensamento dei luoghi, un nuovo senso da attribuire loro in virtù anche del mondo che intorno cambia. L’inevitabile divenire storico che produce mutamenti rischia, e molto spesso ci riesce, di far sentire straniero anche chi ha scelto di andare in controtendenza, innescando quella nostalgia che tanto siamo abituati a pensare come appannaggio esclusivo di chi parte, e che invece Teti ci (ri)consegna come sentimento facente parte anche dei “restanti”. Vi è nostalgia della fine del mondo che si conosceva, di familiari e amici andati via, di porte d’ingresso rimaste chiuse; un esilio in patria patito da chi ha scelto di restare che, come se non bastasse, deve vincere anche le resistenze dei cosiddetti “scoraggiatori militanti” (per dirla con un termine tanto caro al poeta Franco Arminio). Anche in questo caso dunque abbiamo un duplice sguardo: la stessa nostalgia non è solo affare di chi parte e ricorda compianto le proprie origini, ma è altresì manifestazione nei “restanti” di aver vissuto in un luogo che ora quasi non riconoscono più, perché trasformato dal ritmo incessante degli accadimenti.
Porre l’accento sullo sguardo antropologico (e qui è importante rispolverare l’etimologia, per cui: ànthropos “uomo” e lògos “discorso”, dunque “studio dell’uomo”), che in quanto tale non de-finisce, e per cui nemmeno de-limita, la praxis della restanza alle sole micro-comunità mi pare d’obbligo: ci comunica infatti Teti che “Occorre espandere orizzonti e filtri interpretativi e non limitare la prospettiva antropologica della restanza alla vita di quegli angoli di mondo che sono i nostri borghi. Si <<resta>>, infatti, anche nelle città, anche nei quartieri, si configurano mentalmente i propri spazi urbani e si contrappongono a quelli degli altri. Si resta e si viaggia da fermo anche nelle metropoli”. Da una siffatta impostazione si deve tuttavia essere pronti al fallimento, alla possibilità che l’incomprensione prenda presto il posto di un iniziale entusiasmo. Il cambiamento è sempre problematico, sia per chi lo pone in essere, sia per chi lo vive sulla propria esistenza.
Una piccola riflessione mi sorge spontanea prendendo spunto da quanto emerso il 12 ottobre 2022 in merito alla sentenza emessa dal giudice Monica Croci del Tribunale civile de l’Aquila, secondo la quale vi fu concorso di colpa da parte delle vittime del sisma che interessò il territorio aquilano nel giorno del 6 aprile 2009, ree di non essersi allontanate di casa dopo le prime due scosse; ebbene il suddetto concorso corrisponderebbe al 30%. Partendo dall’assunto che le conoscenze scientifiche al giorno d’oggi non permettono di prevedere quando ci sarà un evento sismico, mi sembra dunque assurdo punire chi non seppe anticipare il fenomeno che poi si verificò (in questo caso il terremoto appunto); infatti come potevano sapere e come possiamo sapere qualche cosa che non è nelle conoscenze nemmeno dei più illustri geologi ed ingegneri del mondo? Mi pare che attraverso un simile verdetto, oltre ad essere entrati nel campo dell’irrazionalità, si sia provato a quantificare un grado di colpa riconducibile ad una ricerca di protezione all’interno delle proprie mura domestiche. L’amarezza che nasce dal giudizio di cui sopra è derivante dalla presunta colpevolezza di chi ha scelto di “restare”, e dal fatto che sembri non esserci consapevolezza dinnanzi alla morfologia di taluni territori, i quali sono notoriamente sottoposti, più di altri, a sciami sismici. Non voglio entrare nel merito di come siano state costruite le abitazioni (o forse sarebbe più giusto definirle “bare”), delle 309 vite che non videro la luce del giorno dopo, in quanto non esperto, ma affidandomi ad un minimo di ratio mi viene da pensare che la sollecitazione subita da queste strutture non fosse così distruttiva. Per questo asserisco che azzardare una sentenza tale mi sembra un atto, oltre che poco logico, incauto.